domenica 28 dicembre 2008

UN INCONTRO-da L'Isola Signora-Coppola -editore.2004

La piazza Politeama a Palermo, alle diciassette del pome­riggio. Oceano di gas disgustosi, uragano di clacson. Andavo di fretta senza neppure poter sbirciare la bellezza del teatro dalla quale ogni volta amerei rimanere soggiogata. Un ragazzino mi blocca il passo sul marciapiedi già poco praticabile: «... mi dà qualcosa, mille lire, ho fame..,». Tutti i giorni, ad ogni pie' sospinto, al centro, nella mia città si incontra gente che chiede qualcosa dichiarando d'aver fame: zingari, alcolizzati, immigrati d'oggi colore, invalidi, anziani. Come un marchio in più sulle coscienze sporche del con­sumismo, la città sfodera relitti umani tra pellicce, gioielli, arroganza e vanità e non puoi rispondere ad ogni invocazio­ne! Ma quel ragazzino fermo, risoluto, orgoglioso e dall'aria troppo adulta mi colpi: «Hai fame», domandai, «fame davve­ro?». «Sì», disse serio, «fame». E tacque, A pochi metri da noi uno dei bar più lussuosi della città, sfavillante di luci e panna montata, odorante di cioccolata pre­giata. Presi il ragazzo sotto braccio ed entrammo: «Ordina ciò che vuoi, un gelato, una pasta alla crema..». «Vorrei un panino con la carne». Glielo ordinai. Mangiava muto ed avido guardandomi ancora negli occhi. Avido ma composto, dignitosissimo. Poi bevve dell'acqua fresca. Gli chiesi se volesse qualco­s’altro. Si fece riluttante: «No, grazie, va bene cosi». Ma io compresi dai suoi occhi che indagavano sul bancone di rostic­ceria, che avrebbe desiderato continuare. Mangiò una pizzetta con vero gusto. Quando ci ritrovammo sul marciapiedi mi diede la mano: «Mi chiamo Mario, la voglio ringraziare». «Quanti anni hai?». «Dodici». «Vai a scuola?». «No, lavoro in officina, ma le sessantamila lire della settimana le do a mia madre che è vedova. Io sono capofamiglia. Ora la devo salutare e ancora grazie. Avevo veramente fame!». Sorrise finalmente, appena un attimo e poi sparì tra la folla. Mi vergognai moltissimo d'aver pensato per un attimo che quella fame fosse solo una scusa; di aver pensato, come tutti i superficiali egoisti che con le mie mille lire quel ragazzo avrebbe fatto illeciti acquisti di sigarette o droga. Mi vergognai persino del grande piacere che avevo prova­to vedendolo addentare il suo panino, come se avessi voluto prendermi una grande rivincita, come se avessi voluto dirgli "Hai detto che hai fame! Adesso mangia che tu ne abbia voglia o no!", con l'arroganza che è tipica di tutti coloro per cui man­giare tutti i giorni è cosa naturale, come respirare. Rimasi ferma sul marciapiedi mentre la gente mi spingeva. Nei giorni seguenti lo cercai, Mario, ma non mi è mai più capitato di vederlo. Se lo incontrassi vorrei chiedergli scusa.

4 commenti:

Esmeralda ha detto...

Le tue parole come uno specchio in cui tutta l'umanità riflette la propria condizione, la propria miseria, ma tu ci salvi con la tua umiltà, con la tua onestà intelletuale.La semplicità:dono riservato ai veri poeti!

marilena monti ha detto...

Grazie, non chiederò mai sufficientemente scusa a quel ragazzino. Potessero queste mie povere parole riscattarmi dal peccato d'arroganza che commisi quel giorno!

Giuliano ha detto...

Questa è una storia bellissima- Mi sono vergognato di appartenere alla specie umana. Perchè un episodio di questo tipo è accaduto anche a me- Solo che attraverso le tue parole sto comprendendo il senso del mio comportamento- E' questa la funzione di chi scrive, credo, fare sentire verme uno come me al costo del tuo saperti umiliare e saper raccontare-Grazie

sara ha detto...

Lezione d'umiltà? A volte, spesso, ne avremmo bisogno in questa società opulenta che dimentica che troppe persone si cibano ancora (a me capita di vederne- e non sono barboni!) pescando dai cassonetti. La scrittura è chiara e diretta-come sempre!