domenica 24 gennaio 2010

COME LA "CANA"...di Marilena Monti

Abitavo uno dei palazzi più belli nel cuore di Palermo. L’antico decoro, certo, era stato scalfito dall’incuria del tempo com’è naturale, e dall’ultimo proprietario avaro come e più del personaggio di Moliere, com’è innaturale.

Egli pare lo avesse vinto al gioco, per pochi spiccioli e per lui era stata la manna dal cielo. Aveva frammentato, tagliato, cucito, strutturato, sovra strutturato… abusando in barba a tutte le leggi sulla materia. Ne traeva un mare di soldi affittando gli appartamenti.

Malgrado ciò il bellissimo edificio settecentesco manteneva la sua postura austera, un tantino altezzosa e di innegabile fascino: come di un vecchio, nobile signore che pur essendo caduto in disgrazia, nulla rinneghi delle piccole straordinarie cose del suo “savoir vivre”. Piccole ma imprescindibili.

L’unico a non essere abitato, al primo piano dello scalone, morbido del suo marmo pregiato, era il così detto “piano nobile”. Passandoci davanti per raggiungere il mio appartamento all’ultimo, lì dove le scale di marmo di scarsa qualità, si facevano ripide e faticosissime, guardavo il magnifico portoncino d’ingresso, istoriato, con eleganti maniglie in ottone, anch’esso rugoso di trascuratezza, ma bello a vedersi. Sempre chiuso. Ogni volta cercavo di configurarmi l’appartamento deserto, le ampie sale di affreschi e stucchi e mi pareva uno spreco che rimanesse così sepolto tra penombre e dimenticanza. Del resto si diceva che l’Avaro, avesse fatto tali esose richieste , per darlo in affitto, da scoraggiare chiunque, anche i più innamorati estimatori. La balconata esterna si affacciava su una specie di paradiso della città e due cariatidi mute e severe sembravano far la guardia, chissà, a memorie e storie di quel luogo vietato a tutti gli sguardi.

Grande fu il mio stupore quando un mattino, era la fine dell’inverno, scendendo scorsi il portoncino spalancato su un grande salone d’ingresso in penombra. La voglia di entrare fu irrefrenabile ma riuscii a vincerla: l’Avaro poteva essere lì, di sicuro con un probabile affittuario da sconfortare coi suoi troppi zeri…

Andai via ma, il mattino seguente, la scena era la stessa: ingresso spalancato e luce chiara che filtrava dalla magnifica fuga di saloni. Pecepii dal rumore di passi una presenza, come di qualcuno che stesse lavorando.

Pensai che l’Avaro avesse trovato l’estimatore da spennare, disposto a tutto e avesse quindi deciso di dare un tocco di cipria all’appartamento, giusto per coprire le più orribili, evidenti rughe.

Quella volta non riuscendo a resistere alla curiosità, mi inoltrai di pochi passi nel salone d’ingresso e lì mi fermai a contemplare in una penombra meno impenetrabile, la bellezza degli affreschi. L’odore sgradevole di chiuso e umido non erano sufficienti a mandarmi via. Avevo voglia di entrare, di guardare. I passi si diressero alla mia volta. Rischiavo di essere sorpresa, indiscreta e incantata. Ma da chi? Non era certo l’Avaro a lavorare, a imbiancare le pareti…Non ebbi il tempo di riflettere , né di andar via ed ecco che un giovane uomo mi si fece incontro. Mi salutò con un inchino sorridente.

“Buongiorno, signora, desideri qualche cosa?” Era gentile e il suo volto denunciava una franchezza che mi colpì subito. Gli occhi, per quanto velati di malinconia, erano naturalmente ridenti. Come se la vita non ce l’avesse ancora fatta a sacrificare la luce innata di quella persona. Chi era?

“Sono Karim, buongiorno signora”

“Tunisino?”, chiesi e fu la prima sciocca cosa che mi venne alle labbra.

“Si, signora di Tunisi proprio”

Parlava abbastanza bene l’italiano, la pronuncia intendo, era quasi perfetta. Vestiva anche decorosamente, la sua camicia era pulita , il volto ben rasato, i capelli in perfetto ordine.

“Cosa stai facendo? Lavori qui?”

“Si signora, io lavoro per Dottore, devo fare balconi e porte, scrostare e verniciare e dipingere.”

“Bella Tunisi”, dissi. Ci sono stata lo scorso anno. Bella la tua Terra, Karim.”

Parve commuoversi a quelle mie parole e il sorriso degli occhi, parve accentuarsi e adombrarsi in un solo istante. “Grazie signora. Il Dottore dice che non devo parlare e solo lavorare. Scusa. Vado a mio lavoro. Buongiorno”.

Questo il nostro primo incontro. Per tutto il giorno, ovviamente com’è ovvio per me, non pensai ad altro. Quel giovane mi aveva colpita per la gentilezza dei modi, per la disponibilità garbata. Al mio rientro a casa, era quasi sera, l’uscio dell’appartamento era ancora aperto, e in una penombra ormai quasi notturna udii nitidi, gli stessi rumori del mattino. Questa volta non mi fermai pur chiedendomi come facesse Karim a lavorare ancora, visto che s’era fatto sera: e poi per quante ore al giorno gli aveva imposto di lavorare, l’Avaro? Il giorno successivo incontrai Karim sul pianerottolo. Stava scrostando, dopo averlo divelto, il portoncino. Mi salutò con lo stesso inchino sorridente.

“Come va, Karim? Hai lavorato fino a tardi, ieri sera?”

“Si signora, fino a tardi. Meglio lavorare che dormire…”

“Come mai dici questo? Lavorare troppo non va bene… Il Dottore ti paga a ore o a lavoro complessivo?”

“Lui pagherà a ore… Ma meglio lavorare fino a tardi, quando si lavora non si pensa e poi si dorme meglio per la stanchezza.”

Andavo di fretta, mi accomiatai ma interrogativi vari si accompagnarono alle mie attività del giorno. Ormai non più l’appartamento al piano nobile, bensì Karim destava in me curiosità e attenzione. Quanto poco valeva il più delicato affresco di fronte alle parole, alla concretezza amara che quel ragazzo sconosciuto portava impressa in ogni cellula! Certo avrei voluto saperne di più ma non desideravo apparirgli indiscreta anche se, invero, la mia non era curiosità, era piuttosto attenzione.

Qualche giorno dopo Karim stava lavorando sul mio pianerottolo all’appartamento limitrofo al mio, anch’esso sfitto da mesi .

” Buongiorno signora, scusa rumore. Dottore ha detto che devo aggiustare questa porta e poi vado giù a continuare.”

“Non preoccuparti, Karim, non mi hai disturbato.” Nella luce piena del mattino, il sole sul volto, potei guardarlo meglio e scorsi i bei lineamenti, lo scintillio delle pupille, la pelle chiara di chi non si sia sottoposto a lavori pesanti sotto il sole eccessivo o le intemperie. Notai infine che le sue mani erano ben curate, come di chi non le abbia usate per lavori manuali pesanti.

“Che lavoro facevi a Tunisi?”, chiesi indiscreta.

Smise di scartavetrare e parlò abbassando lo sguardo sul marmo freddo, quasi stesse leggendo lì la risposta, sulla terra che impietosa tiene il diario di ogni vivente.

“Quasi laureato in matematica. Niente lavoro e ho dovuto smettere studi che io stesso pagavo. Poi ho fatto il tipografo. Poi tipografia chiusa, io niente lavoro vengo in Sicilia.”

Fitta al cuore. Acuta. Lo sguardo mio scivolò a terra, come il suo. Leggevamo lo stesso rigo.

“Mi dispiace , Karim, avresti diritto al tuo lavoro nella tua Tunisia!”, dissi banalmente.

“Va bene questo che faccio. Lavoro tutto buono.”- fece una breve pausa- “Quello che non buono è che Dottore non paga!”

“Come non paga?”

“Io lavoro già due settimane , lui niente soldi. Dice sempre domani, domani, domani… E così io non posso trovare casa, albergo. Lui dice che al posto di pagare me io dormo qui così niente spese.”

D’improvviso mi parve di capire. Ma no, era troppo anche per l’Avaro, ciò che mi sembrava di avere intuito. Ma per la fantasia perversa di sfruttamento di noi civili- non razzisti, non ci sono limiti, specie per uno straordinario come l’Avaro! Karim infatti mi spiegò.

“Lui dice io dormire in appartamento dove lavoro.”

“Ma è vuoto, disabitato, freddo, manca la luce elettrica…Dove, dove dormi!?”- quasi gli urlai.

Ancora una volta guardò a terra ma subito dopo i suoi occhi cercarono i miei. Li trovai colmi di dolore e umiliazione: “Lui mi fa dormire a terra, come la cana!”

“No, Karim,non è possibile, non è possibile!”

“Invece si. Lui dice che così risparmio e così lavoro tutto il giorno fino al buio della notte e così guadagno di più e finisco presto il lavoro.”

Tacemmo.

“Come la cana, a terra come la cana." - ripeteva - "Freddo, la notte freddo, Buio, troppo buio. A volte mi viene paura di tutto, di silenzio, di topi, di fantasmi…”- sorrise- “pure se non ci sono. Ma il freddo c’è a dormire a terra. Per questo lavoro fino a essere troppo stanco, per potere dormire, anche lì a terra, come la cana!”

Il dolore mi prese le ossa, come gelo improvviso e tagliente.

Quel giorno insistetti perché si fermasse a pranzo da me, ma egli declinò l’invito con grata gentilezza. Avrebbe preso un panino fuori, come tutti i giorni, non voleva interrompere il lavoro. Insistetti perché venisse la domenica e lui accettò, imbarazzato e riconoscente.

Ma non potevo così semplicemente, risolvere il nodo che mi si era aggrovigliato all’anima. Parlare con l’Avaro decisamente no! Avrei messo quel ragazzo nei guai, lo avrebbe licenziato senza dargli un centesimo e avrebbe sfrattato me. Bisognava dunque intervenire di nascosto, al più presto e con mezzi empirici per dar sollievo alle notti di Karim.

Andai immediatamente a ripescare , ad eccezione della tenda, tutto l’occorrente per i mie campeggi giovanili: brandina, lume a gas, fornello a gas, un paio di sgabelli. Presi delle coperte, una caffettiera con un barattolo di caffè e dello zucchero (che fossero meno amari i suoi risvegli…), delle riviste da sfogliare, delle ricariche per il lume e il fornello, una tazza e un cucchiaino, un paio di libri, una radiolina a pile (che fosse meno angosciante il suo silenzio di fantasmi e blatte…). Ero precipitosa e frenetica come si trattasse di portare qualcuno che verta in gravi condizioni, al pronto soccorso. Mille altre cose gli avrei dato, di più, e intanto mi nutriva un odio generoso e grasso nei confronti dell’Avaro. Un odio senza ombra di scalfittura. L’odio quand’è sacrosanto può fare miracoli. Mi piace crederlo, perciò non mi risparmiavo in questo. Un odio lucente come una lama al sole, senza scalfitture di perdono.

Karim parve scioccato dai mie doni. Da principio li rifiutò con gentilezza, poi li accettò e lo vidi, felice, guadagnarsi un posto suo nell’ingresso.

“Perché qui, ci sono tante stanze, magari meno fredde di questa vicina alle scale!”

“Si, ma qui sento la gente, voci, salire, scendere…mi sento meno solo!”

Sistemò la sua “dimora” lì, nell’angolino a sinistra entrando, il suo lettuccio con accanto gli sgabelli, uno con il lume, la radio, le cose da leggere, l’altro col fornellino, la caffettiera e la tazza.

Non sarebbe stato più come la "cana". Guardava orgoglioso quell’angolo. Guardava me con una gratitudine che poche volte ho visto in uno sguardo umano. Imbarazzante persino. Poiché imbarazza dover porre, alla meno peggio rimedio alla madornale mancanza di umanità di altri che sono nostri consimili. Continuava a ringraziarmi Karim , e io mi schivavo, dicendo di avere molta fretta e raccomandandomi che non dicesse all’Avaro che ero stata io a dargli quei poveri oggetti di prima necessità. Doveva dire che li aveva acquistati per bisogno assoluto e che perciò lo pagasse. Rinnovai l’invito per la domenica, a pranzo a casa mia,

“Ti piace la carne, Karim?”

“Si, molto, grazie!”

“Mangi le patate?”

“Si, certo con molto piacere! Sai Signora, in harab patata si dice patata!”

Rise. Ero molto contenta che dicendo patata parlavo la sua lingua e lui la mia. Era un legame in più con quel parente del pianeta che stava drammaticamente e dolcemente, attraversando la mia strada.

Feci per andare ma lui mi chiamò:

“Domenica porto un gatto, a pranzo!”, disse. E questa frase mi preoccupò molto. Non potevo permettermi di tenere un gatto avendo un cagnolino. La convivenza avrebbe potuto risultare impossibile se non drammatica.

“No, ti prego, Karim, niente gatti, grazie lo stesso. Non occorre che tu porti nulla!”

“Non ti piacciono i gatti signora?”

“Si moltissimo, ma… preferisco di no, ti prego non portare nulla!”

“Io non posso venire a pranzo a casa tua senza portare un gatto!”- disse e il suo tono era deciso, non ammetteva repliche, pena la sua defezione.

“Va bene! Grazie…” – risposi rassegnata. Avevo troppo piacere di offrirgli un pasto gustoso in una situazione rilassante e calda.

Nei i giorni successivi mi scervellai a trovare una soluzione. Far convivere i due animali? Come? Un gatto! E se avesse portato un cuccioletto? Allora forse avrei potuto donarlo a qualcuno, ma poi Karim ci sarebbe rimasto male…

La domenica a mezzogiorno in punto il quasi professor Karim bussò alla mia porta. Era elegante e profumato, portava una bella cravatta sulla camicia candida.. In una mano reggeva una latta di quella preziosa salsa al peperoncino che avevo gustato in Tunisia; nell’altra ben confezionata una torta. “E il gatto?”- pensai- forse era fuori in un cestino, lo aveva lasciato sul pianerottolo affinché chiudessi il cane nell’altra stanza onde evitare un impatto aggressivo.

Ma mentre cercavo di rispondere a questa domanda fra me e me egli, col suo più bel sorriso disse: “Spero ti piace questo gatto con ricotta e frutta candita”.

Felicemente sorpresa gli risposi di getto: “Si Karim, è il mio preferito… solo che in italiano il gatto è un’altra cosa, è l’animale domestico,… questo si chiama torta o dolce o…gateau..”

“Oui! “ – rispose- “Si, si gateau..ah, ah…tu avevi pensato a animale che graffia! Scusami signora…”

E rise e ridemmo insieme. Come si ride solo tra amici veri.

Mercoledì 20/01/2009