domenica 24 gennaio 2010

COME LA "CANA"...di Marilena Monti

Abitavo uno dei palazzi più belli nel cuore di Palermo. L’antico decoro, certo, era stato scalfito dall’incuria del tempo com’è naturale, e dall’ultimo proprietario avaro come e più del personaggio di Moliere, com’è innaturale.

Egli pare lo avesse vinto al gioco, per pochi spiccioli e per lui era stata la manna dal cielo. Aveva frammentato, tagliato, cucito, strutturato, sovra strutturato… abusando in barba a tutte le leggi sulla materia. Ne traeva un mare di soldi affittando gli appartamenti.

Malgrado ciò il bellissimo edificio settecentesco manteneva la sua postura austera, un tantino altezzosa e di innegabile fascino: come di un vecchio, nobile signore che pur essendo caduto in disgrazia, nulla rinneghi delle piccole straordinarie cose del suo “savoir vivre”. Piccole ma imprescindibili.

L’unico a non essere abitato, al primo piano dello scalone, morbido del suo marmo pregiato, era il così detto “piano nobile”. Passandoci davanti per raggiungere il mio appartamento all’ultimo, lì dove le scale di marmo di scarsa qualità, si facevano ripide e faticosissime, guardavo il magnifico portoncino d’ingresso, istoriato, con eleganti maniglie in ottone, anch’esso rugoso di trascuratezza, ma bello a vedersi. Sempre chiuso. Ogni volta cercavo di configurarmi l’appartamento deserto, le ampie sale di affreschi e stucchi e mi pareva uno spreco che rimanesse così sepolto tra penombre e dimenticanza. Del resto si diceva che l’Avaro, avesse fatto tali esose richieste , per darlo in affitto, da scoraggiare chiunque, anche i più innamorati estimatori. La balconata esterna si affacciava su una specie di paradiso della città e due cariatidi mute e severe sembravano far la guardia, chissà, a memorie e storie di quel luogo vietato a tutti gli sguardi.

Grande fu il mio stupore quando un mattino, era la fine dell’inverno, scendendo scorsi il portoncino spalancato su un grande salone d’ingresso in penombra. La voglia di entrare fu irrefrenabile ma riuscii a vincerla: l’Avaro poteva essere lì, di sicuro con un probabile affittuario da sconfortare coi suoi troppi zeri…

Andai via ma, il mattino seguente, la scena era la stessa: ingresso spalancato e luce chiara che filtrava dalla magnifica fuga di saloni. Pecepii dal rumore di passi una presenza, come di qualcuno che stesse lavorando.

Pensai che l’Avaro avesse trovato l’estimatore da spennare, disposto a tutto e avesse quindi deciso di dare un tocco di cipria all’appartamento, giusto per coprire le più orribili, evidenti rughe.

Quella volta non riuscendo a resistere alla curiosità, mi inoltrai di pochi passi nel salone d’ingresso e lì mi fermai a contemplare in una penombra meno impenetrabile, la bellezza degli affreschi. L’odore sgradevole di chiuso e umido non erano sufficienti a mandarmi via. Avevo voglia di entrare, di guardare. I passi si diressero alla mia volta. Rischiavo di essere sorpresa, indiscreta e incantata. Ma da chi? Non era certo l’Avaro a lavorare, a imbiancare le pareti…Non ebbi il tempo di riflettere , né di andar via ed ecco che un giovane uomo mi si fece incontro. Mi salutò con un inchino sorridente.

“Buongiorno, signora, desideri qualche cosa?” Era gentile e il suo volto denunciava una franchezza che mi colpì subito. Gli occhi, per quanto velati di malinconia, erano naturalmente ridenti. Come se la vita non ce l’avesse ancora fatta a sacrificare la luce innata di quella persona. Chi era?

“Sono Karim, buongiorno signora”

“Tunisino?”, chiesi e fu la prima sciocca cosa che mi venne alle labbra.

“Si, signora di Tunisi proprio”

Parlava abbastanza bene l’italiano, la pronuncia intendo, era quasi perfetta. Vestiva anche decorosamente, la sua camicia era pulita , il volto ben rasato, i capelli in perfetto ordine.

“Cosa stai facendo? Lavori qui?”

“Si signora, io lavoro per Dottore, devo fare balconi e porte, scrostare e verniciare e dipingere.”

“Bella Tunisi”, dissi. Ci sono stata lo scorso anno. Bella la tua Terra, Karim.”

Parve commuoversi a quelle mie parole e il sorriso degli occhi, parve accentuarsi e adombrarsi in un solo istante. “Grazie signora. Il Dottore dice che non devo parlare e solo lavorare. Scusa. Vado a mio lavoro. Buongiorno”.

Questo il nostro primo incontro. Per tutto il giorno, ovviamente com’è ovvio per me, non pensai ad altro. Quel giovane mi aveva colpita per la gentilezza dei modi, per la disponibilità garbata. Al mio rientro a casa, era quasi sera, l’uscio dell’appartamento era ancora aperto, e in una penombra ormai quasi notturna udii nitidi, gli stessi rumori del mattino. Questa volta non mi fermai pur chiedendomi come facesse Karim a lavorare ancora, visto che s’era fatto sera: e poi per quante ore al giorno gli aveva imposto di lavorare, l’Avaro? Il giorno successivo incontrai Karim sul pianerottolo. Stava scrostando, dopo averlo divelto, il portoncino. Mi salutò con lo stesso inchino sorridente.

“Come va, Karim? Hai lavorato fino a tardi, ieri sera?”

“Si signora, fino a tardi. Meglio lavorare che dormire…”

“Come mai dici questo? Lavorare troppo non va bene… Il Dottore ti paga a ore o a lavoro complessivo?”

“Lui pagherà a ore… Ma meglio lavorare fino a tardi, quando si lavora non si pensa e poi si dorme meglio per la stanchezza.”

Andavo di fretta, mi accomiatai ma interrogativi vari si accompagnarono alle mie attività del giorno. Ormai non più l’appartamento al piano nobile, bensì Karim destava in me curiosità e attenzione. Quanto poco valeva il più delicato affresco di fronte alle parole, alla concretezza amara che quel ragazzo sconosciuto portava impressa in ogni cellula! Certo avrei voluto saperne di più ma non desideravo apparirgli indiscreta anche se, invero, la mia non era curiosità, era piuttosto attenzione.

Qualche giorno dopo Karim stava lavorando sul mio pianerottolo all’appartamento limitrofo al mio, anch’esso sfitto da mesi .

” Buongiorno signora, scusa rumore. Dottore ha detto che devo aggiustare questa porta e poi vado giù a continuare.”

“Non preoccuparti, Karim, non mi hai disturbato.” Nella luce piena del mattino, il sole sul volto, potei guardarlo meglio e scorsi i bei lineamenti, lo scintillio delle pupille, la pelle chiara di chi non si sia sottoposto a lavori pesanti sotto il sole eccessivo o le intemperie. Notai infine che le sue mani erano ben curate, come di chi non le abbia usate per lavori manuali pesanti.

“Che lavoro facevi a Tunisi?”, chiesi indiscreta.

Smise di scartavetrare e parlò abbassando lo sguardo sul marmo freddo, quasi stesse leggendo lì la risposta, sulla terra che impietosa tiene il diario di ogni vivente.

“Quasi laureato in matematica. Niente lavoro e ho dovuto smettere studi che io stesso pagavo. Poi ho fatto il tipografo. Poi tipografia chiusa, io niente lavoro vengo in Sicilia.”

Fitta al cuore. Acuta. Lo sguardo mio scivolò a terra, come il suo. Leggevamo lo stesso rigo.

“Mi dispiace , Karim, avresti diritto al tuo lavoro nella tua Tunisia!”, dissi banalmente.

“Va bene questo che faccio. Lavoro tutto buono.”- fece una breve pausa- “Quello che non buono è che Dottore non paga!”

“Come non paga?”

“Io lavoro già due settimane , lui niente soldi. Dice sempre domani, domani, domani… E così io non posso trovare casa, albergo. Lui dice che al posto di pagare me io dormo qui così niente spese.”

D’improvviso mi parve di capire. Ma no, era troppo anche per l’Avaro, ciò che mi sembrava di avere intuito. Ma per la fantasia perversa di sfruttamento di noi civili- non razzisti, non ci sono limiti, specie per uno straordinario come l’Avaro! Karim infatti mi spiegò.

“Lui dice io dormire in appartamento dove lavoro.”

“Ma è vuoto, disabitato, freddo, manca la luce elettrica…Dove, dove dormi!?”- quasi gli urlai.

Ancora una volta guardò a terra ma subito dopo i suoi occhi cercarono i miei. Li trovai colmi di dolore e umiliazione: “Lui mi fa dormire a terra, come la cana!”

“No, Karim,non è possibile, non è possibile!”

“Invece si. Lui dice che così risparmio e così lavoro tutto il giorno fino al buio della notte e così guadagno di più e finisco presto il lavoro.”

Tacemmo.

“Come la cana, a terra come la cana." - ripeteva - "Freddo, la notte freddo, Buio, troppo buio. A volte mi viene paura di tutto, di silenzio, di topi, di fantasmi…”- sorrise- “pure se non ci sono. Ma il freddo c’è a dormire a terra. Per questo lavoro fino a essere troppo stanco, per potere dormire, anche lì a terra, come la cana!”

Il dolore mi prese le ossa, come gelo improvviso e tagliente.

Quel giorno insistetti perché si fermasse a pranzo da me, ma egli declinò l’invito con grata gentilezza. Avrebbe preso un panino fuori, come tutti i giorni, non voleva interrompere il lavoro. Insistetti perché venisse la domenica e lui accettò, imbarazzato e riconoscente.

Ma non potevo così semplicemente, risolvere il nodo che mi si era aggrovigliato all’anima. Parlare con l’Avaro decisamente no! Avrei messo quel ragazzo nei guai, lo avrebbe licenziato senza dargli un centesimo e avrebbe sfrattato me. Bisognava dunque intervenire di nascosto, al più presto e con mezzi empirici per dar sollievo alle notti di Karim.

Andai immediatamente a ripescare , ad eccezione della tenda, tutto l’occorrente per i mie campeggi giovanili: brandina, lume a gas, fornello a gas, un paio di sgabelli. Presi delle coperte, una caffettiera con un barattolo di caffè e dello zucchero (che fossero meno amari i suoi risvegli…), delle riviste da sfogliare, delle ricariche per il lume e il fornello, una tazza e un cucchiaino, un paio di libri, una radiolina a pile (che fosse meno angosciante il suo silenzio di fantasmi e blatte…). Ero precipitosa e frenetica come si trattasse di portare qualcuno che verta in gravi condizioni, al pronto soccorso. Mille altre cose gli avrei dato, di più, e intanto mi nutriva un odio generoso e grasso nei confronti dell’Avaro. Un odio senza ombra di scalfittura. L’odio quand’è sacrosanto può fare miracoli. Mi piace crederlo, perciò non mi risparmiavo in questo. Un odio lucente come una lama al sole, senza scalfitture di perdono.

Karim parve scioccato dai mie doni. Da principio li rifiutò con gentilezza, poi li accettò e lo vidi, felice, guadagnarsi un posto suo nell’ingresso.

“Perché qui, ci sono tante stanze, magari meno fredde di questa vicina alle scale!”

“Si, ma qui sento la gente, voci, salire, scendere…mi sento meno solo!”

Sistemò la sua “dimora” lì, nell’angolino a sinistra entrando, il suo lettuccio con accanto gli sgabelli, uno con il lume, la radio, le cose da leggere, l’altro col fornellino, la caffettiera e la tazza.

Non sarebbe stato più come la "cana". Guardava orgoglioso quell’angolo. Guardava me con una gratitudine che poche volte ho visto in uno sguardo umano. Imbarazzante persino. Poiché imbarazza dover porre, alla meno peggio rimedio alla madornale mancanza di umanità di altri che sono nostri consimili. Continuava a ringraziarmi Karim , e io mi schivavo, dicendo di avere molta fretta e raccomandandomi che non dicesse all’Avaro che ero stata io a dargli quei poveri oggetti di prima necessità. Doveva dire che li aveva acquistati per bisogno assoluto e che perciò lo pagasse. Rinnovai l’invito per la domenica, a pranzo a casa mia,

“Ti piace la carne, Karim?”

“Si, molto, grazie!”

“Mangi le patate?”

“Si, certo con molto piacere! Sai Signora, in harab patata si dice patata!”

Rise. Ero molto contenta che dicendo patata parlavo la sua lingua e lui la mia. Era un legame in più con quel parente del pianeta che stava drammaticamente e dolcemente, attraversando la mia strada.

Feci per andare ma lui mi chiamò:

“Domenica porto un gatto, a pranzo!”, disse. E questa frase mi preoccupò molto. Non potevo permettermi di tenere un gatto avendo un cagnolino. La convivenza avrebbe potuto risultare impossibile se non drammatica.

“No, ti prego, Karim, niente gatti, grazie lo stesso. Non occorre che tu porti nulla!”

“Non ti piacciono i gatti signora?”

“Si moltissimo, ma… preferisco di no, ti prego non portare nulla!”

“Io non posso venire a pranzo a casa tua senza portare un gatto!”- disse e il suo tono era deciso, non ammetteva repliche, pena la sua defezione.

“Va bene! Grazie…” – risposi rassegnata. Avevo troppo piacere di offrirgli un pasto gustoso in una situazione rilassante e calda.

Nei i giorni successivi mi scervellai a trovare una soluzione. Far convivere i due animali? Come? Un gatto! E se avesse portato un cuccioletto? Allora forse avrei potuto donarlo a qualcuno, ma poi Karim ci sarebbe rimasto male…

La domenica a mezzogiorno in punto il quasi professor Karim bussò alla mia porta. Era elegante e profumato, portava una bella cravatta sulla camicia candida.. In una mano reggeva una latta di quella preziosa salsa al peperoncino che avevo gustato in Tunisia; nell’altra ben confezionata una torta. “E il gatto?”- pensai- forse era fuori in un cestino, lo aveva lasciato sul pianerottolo affinché chiudessi il cane nell’altra stanza onde evitare un impatto aggressivo.

Ma mentre cercavo di rispondere a questa domanda fra me e me egli, col suo più bel sorriso disse: “Spero ti piace questo gatto con ricotta e frutta candita”.

Felicemente sorpresa gli risposi di getto: “Si Karim, è il mio preferito… solo che in italiano il gatto è un’altra cosa, è l’animale domestico,… questo si chiama torta o dolce o…gateau..”

“Oui! “ – rispose- “Si, si gateau..ah, ah…tu avevi pensato a animale che graffia! Scusami signora…”

E rise e ridemmo insieme. Come si ride solo tra amici veri.

Mercoledì 20/01/2009

mercoledì 4 febbraio 2009

PANTELLERIA, L'ISOLA DEL VULCANO

..da L'isola Signora- seconda edizione COPPOLA editore-2004
Sbarcai a Pantelleria dopo una notte di fastidi: il mare agitato, la nave piccola e affollata, l'aria soffocante, io e la mia chitarra strette nella cuccetta scomoda. Pantelleria mi aprì gli occhi all'alba e me li richiuse la notte successiva su un tripudio di emozioni. Ero stata amorevolmente accudita, nutrita con cacciagione, salsicce al sugo, ottimo vino. Quando fui condotta, dopo un lunghissimo bagno nel mare blu, su un palcoscenico approntato sugli scogli, s'era levato lo scirocco più caldo e africano di quello di Sicilia. L'uomo disse:"Anche l'anno scorso, per lo spettacolo, soffiava così e il cantante volò a mare!" Io non volai. Cantai e raccontai per ore, col vento in gola, per gli isolani avidi delle mie storie. Mi costrinse a rimanere per tre giorni, lo scirocco mi costrinse a guardare e capire Pantelleria. Ed io la odiai, la interrogai, la rifiutai, provai a comprenderla. Ed infine si fece amare e mi piacque, il terzo giorno, immaginarla come una terra di poeti, l'unica, possibile, futura isola dei poeti. Perchè è a Pantelleria che il vulcano dormiente si respira, come fosse vivo, dalla terra e dal mare. E' a Pantelleria che Ulisse approderebbe oggi per bearsi di cocenti, cromatiche fantasie, di terra generosa, di cibo e vino per un nuovo oblio. E' la contraddizione a rendere immaginari i luoghi che già sono nel reale in quell'isola che volge le spalle al mare, le cui case (dammusi) si guardano, paradossalmente, ignorando l'azzurra , infinita bellezza del regno di Nettuno. Un'isola dignitosa e fantastica, laboriosa, spinosa e morbida di bionde viti. Lì è sovrano il vulcano dormiente; è venerato da inconsapevoli adepti, è temuto e riverito perchè si è fatto materia mescolata alla materia. E' il ricordo di fiati caldissimi, è guardiano di venti salini. Si è diluito amorevolmente come un padre, nelle acque dei laghetti, negli odori e nei colori.
Quale luogo migliore per immaginare, per scomporre e ricomporre pensieri, per incontrare eterni Omeri, Ulisse eterni...
Pantelleria è l'isola del vulcano più di quanto non lo sia la stessa Sicilia che porta in sè un vulcano attivo, troppo "vero", troppo "vivo" per essere contemporaneamente abbracciato dalla sfera del reale e da quella dell'immaginario. Mi piacque ambientare un ipotetico raduno di poeti antichi e futuri, a Pantelleria, unico luogo possibile per tutto l'impossibile che l'immaginario sa creare.
Un' isola minore che obbliga, costringe a quel silenzio di riflessione che è poi, il luogo unico da cui si genera il "pensiero della parola"
Il vulcano dell'isola è quel silenzio ed è il vulcano sopito di Pantelleria.
A Pantelleria, del resto, l'immaginario dell'Universo ha già preso forma nell'incantevole, semplicissima e complessa, perfetta struttura del fiore di cappero.

giovedì 29 gennaio 2009

CHE FAI?

Che fai, mela ridente,
in questo sabato chiaro in cui confusi le caldarroste e i gelsomini frammischiano stagioni e poesie s’affastellano, s’accatastano lune, la voglia di nuotare nei tuoi occhi, gli spruzzi di parole … In un cantuccio del tuo sorriso conservo le farfalle, le mie stelle di mare.

giovedì 22 gennaio 2009

ONDA VERDE

Esco dalla Rai. Sabato sera, 22,30. Ho lavorato. Otto ore e trentacinque. Non è poco, specie se penso che presto la struttura di programmi della Rai siciliana chiude. Lo hanno deciso a Roma. Lo hanno deciso i mafiosi di Roma e quelli di Palermo. Sono stanca. Salgo in auto, accendo la radio unico antidoto alla noia dei semafori rossi, della febbre del sabato sera del prossimo mio fannullone, delle cuciture dell’asfalto che numerose mi infliggono “microtraumi irreversibili” alla schiena. Il primo semaforo di viale Strasburgo è verde. Sarà la prima volta in un anno! Che bella sorpresa! Accelero, ingrano la terza, VOLO! E quale non è la mia meraviglia : anche quello all’incrocio con via Valdemone è verde, e quello con la via Lazio... Ma cos’è la mia serata fortunata? Procedo. Adesso la radio mi canta un ritmo scorrevole , una felicità di andare quasi senza ostacoli. Io odio guidare in questa città dove è impossibile “andare”, dove si sta fermi per ore ,in auto, a respirare ossido di carbonio e claustrofobia. E invece questo sabato sera è verde... Posso cominciare il mio viaggio a Palermo. Anche il semaforo di piazza Virgilio e quello di piazza Politeama e di via Cavour... Sogno o son desta? Sogno. Ecco, ci risiamo. Ho ricominciato a sognare. Di colpo la stanchezza è sparita, di colpo mi dimentico che ormai è obbligatorio soffrire in questa città senza speranze. In questa città dove la tangente la paghi anche soltanto in disgusto, stanchezza, attese snervanti. Ci ricasco, m’innamoro, l’onda verde mi consente di percorrere questa metropoli come dovrebbe sempre essere e non è mai. Scivolo lieta, senza ostacoli, portando in giro la mia sera per le strade belle che ormai non guardo più, non trovo più! Giro per ben tre volte attorno al teatro Massimo, balliamo il valzer , la musica è nel cuore, siamo protagonisti solitari, sopravvissuti... Ci ritroviamo dopo l’ assenza delle ore di punta, del sempre, del “non si posteggia neanche a pagare”, della doppia e della tripla fila. Verde il semaforo della via Maqueda e quella del Cassaro. . Che allegria! Apro il finestrino, respiro. Ho avuto una sorta di lasciapassare dalla città incantata. Come ci separano, sempre ci separano! E tu sei sempre eguale: superba e impotente. Quando piangi? Di notte, o in queste rare tregue in cui solitaria e amara ti specchi negli occhi miei commossi... Vedo, sbocconcellata la tua bellezza., ogni volta un morso in più sulla tua pelle. I palazzi, i monumenti, le chiese: crepe, fuliggine, incuria. Io ti percorro e come ogni volta che ti vedo mi innamori e mi addolori. E per questo non posso fermarmi. Vado lentamente, l’onda verde non si interrompe, scorgo un paradiso, respiro la torbida bellezza della tua solitudine e penso che ogni tuo cittadino dovrebbe avere almeno una volta l’occasione di esplorarti come sto facendo io, in una quiete rubata alla perenne confusione. Vado ad affondarmi sempre più nel tuo cuore. Sono nella Piazza Marina e alla Magione e infine scorgo il tuo mare ignoto, il tuo mare che non è mare perché ognuno gli volge le spalle. Misuro la mia ostinazione insensata d’amarti. Rispondi stupenda, mi parli, confidi una pena, sei umana. Ti ho odiata, ti odio al mattino, rumore d’inferno, volgare sopruso, violenza. Ma oggi il miracolo è nostro. Facciamo una festa, possiamo brindare noi due solitarie. Il giro continua: ricchezza e rovina.. Ritorno e ritorno, risalgo e riscendo , non posso saziarmi. Infine mi fermo. Nell’ombra fresca dell’androne della casa in cui vivo, gli occhi lampeggiano ancora azzurri dorati. Mi pento delle imprecazioni aspre e quotidiane, e dei cattivi pensieri, di quando ti urlo rancore, di quando ti minaccio che andrò via, di quando ti dichiaro che mi uccidi... E’ stato bellissimo il viaggio. Mi chiedo se possa bastare talmente poco, una serie di semafori verdi casualmente in fila, per farmi sentire che questa Palermo avvilita da mortali lacci di vergogna, caos, aggressività, possa sorridere ancora viva : per farmi sentire che non vuol morire.

domenica 18 gennaio 2009

GUARDARTI

Le unghie guardo della tua mano e poi la fronte, torno ancora alla fronte e poi la tasca dove scivoli i pensieri; dopo la fronte ancora e poi il sorriso guardo... Cercando di scoprire il nucleo di diamante del tuo pensiero.

venerdì 9 gennaio 2009

A SELINUNTE,UN BIGLIETTO PER LA BELLEZZA

da: "L’Isola Signora"- Coppola editore– 2^edizione-2004 - Sono tornata a Selinunte dopo più di 15 anni. I templi, la cittadella. E tutti a scoraggiarmi: «Non vi si può più accede¬re, stanno costruendo le dune, i lavori in corso, ancora ne passerà di tempo!». La mia frenesia. Mi prende così, a caso, la smania di rivedere un luogo, la memoria ripesca senza alcun criterio dai suoi archivi, crea nuovi e vecchi desideri. E all'improvviso mi son trovata a ricordare Selinunte. Ad averne nostalgia. La nostalgia, quel sentimento che nutre e dispera. Ricordare le mie corse sul motorino, col vento in faccia, con la primavera tra i capelli. Quei pomeriggi solari, quei percorsi azzurrissimi, sentieri di acacia in fiore e ginestre premature e tutti i profumi della campagna misti alla fragranza sala¬ta del "greco mare". Era un'ebbrezza straordinaria, era la fine del liceo, era la sensazione di essere sufficientemente adulta da poter cogliere e capire tutta la magnificenza di quei luoghi noti sin dalla prima infanzia. Erano cresciuti nei miei occhi di bambina quei templi. Immensi e quasi temibili, sublimi in una essenzialità che non riuscivo a decifrare né ad esprimere. Mi sembravano, comunque, perfettamente funzionali a qualcosa di grande: la fede di quei popoli che li avevano costruiti. Ciò mi rendeva enorme il piacere della contemplazione delle rovine, delle ipotesi, della storia, della intensità delle cose. Quando poi, più grande, ci tornavo con il mio motorino e senza la mano rassicurante di mio padre a condurmi, sentivo ancora più forti quelle sensazioni dell'infanzia. Sentivo che qualcosa di ancora più misterioso era custodito tra le antiche pietre dei templi e della cittadella. Mi fermavo per ore a guardare il mare buono senza più attesa di nemici invasori, e mi sentivo appartenere all'anima comune dell'umanità che ha attraversato la vita. Ci sono tornata, a Selinunte, dopo più di 15 anni. Un pomeriggio di luglio. L'afa poggiata sulle cose, la luce sfibrante, l'estate in trionfo. L'antica via d'accesso alla zona archeologica è ormai inesistente. Giravo per una strada nuova e non mi riusciva d'approdare là dove il mio desiderio voleva portarmi: «...Non c'è più possibilità, stanno costruendo le dune artificiali per circondarla, poi vi saranno una serie di percorsi obbligatori, dei tunnel e delle porte attraverso cui si potranno guardare i templi!». Solo da uno scorcio rimasto libero riesco a vedere, o forse solo a intravedere uno dei templi, ancora in parte intatto, sublime nella sua austerità. Provo un tuffo al cuore. Vorrei ma non posso più raggiungerlo. «Perché?», chiedo, «perché tutto questo!». «Perché così la gente per entrare, per vedere, dovrà pagare il biglietto. Un grosso guadagno, servirà in parte alla manutenzione stessa della città archeologica». Provo un sentimento di frustrazione in più. La nostalgia si trasforma in boccone amaro. Un percorso obbligato a togliere spontaneità, fervore, al desiderio di ricongiungersi al passato e alla storia attraverso le antiche testimonianze di pietra. Non credo che tornerò quando i tunnel ed i percorsi obbligati saranno pronti, semmai mi limiterò a guardare da quell'unico angolo libero da false dune, l'unico tempio visibile. Così, da lontano, con quelle lontananze obbligate che l'uomo di oggi frappone fra sé e le emozioni, per futili motivi.

giovedì 1 gennaio 2009

UNA RECENSIONE a Viaggio di cuore di LallaFalilulela- Ho letto un libro che mi è piaciuto molto. L'autrice, Marilena Monti, incentra la storia del protagonista, il poetico, incantato e fragile Ugo, professore di lettere in un liceo, sullo scontro/incontro del protagonista con sé stesso e sulla descrizione del viaggio, che quasi tutti, prima o poi, siamo costretti a fare alla ricerca di noi stessi. La motivazione dell'angoscia che deborda, travalicando i limiti della sostenibilità e obbligando il protagonista a escogitare ogni possibile tecnica di sopravvivenza, é un trapianto di cuore che, se inizialmente consente la creazione di un alibi, subito dopo non permette che a quell'alibi ci si aggrappi, facendolo a pezzi, scardinandone le fondamenta e travolgendo in questa furia anche il protagonista. Muri di parole, aspre e forti, si ergono a inutile difesa di una parvenza di vita ferita da dolori antichi e rancori incancreniti, mentre il viaggio diventa fuga e ricerca di un oblio irraggiungibile. La scrittura calda e piena, ricca fino all'opulenza, della scrittrice si fa serrata e incalzante, svelando non soltanto angoli di Sicilia ubriachi di sole, ma anche scelte e sentimenti, sprofondati a viva forza nel buio della dimenticanza che, riemergendo, a spizzichi e bocconi, di luogo in luogo, di ricordo in ricordo... Non vi anticipo il finale. Imprevedibile! Pubblicato da Lalla Falilulela a 4.04 0 commenti Etichette: Marilena Monti: Viaggio di cuore

mercoledì 31 dicembre 2008

TENEREZZA

Celeste, morbida, infìda tenerezza, come un piccolo nodo che alla gola mi toglie il fiato appena appena: un papillon d’incenso... Ti guardo ed hai l’età di un gioco antico, un legame d’infanzia, conoscenza di latte, di sangue, di madre che (ti) divento. Mi piace e mi confonde crescerti sulle rime delle mie rime in un frammento d’abbandono che ti concedi, breve, per ritornare in fretta alla coscienza, alla tua età, alla mia…

domenica 28 dicembre 2008

UN INCONTRO-da L'Isola Signora-Coppola -editore.2004

La piazza Politeama a Palermo, alle diciassette del pome­riggio. Oceano di gas disgustosi, uragano di clacson. Andavo di fretta senza neppure poter sbirciare la bellezza del teatro dalla quale ogni volta amerei rimanere soggiogata. Un ragazzino mi blocca il passo sul marciapiedi già poco praticabile: «... mi dà qualcosa, mille lire, ho fame..,». Tutti i giorni, ad ogni pie' sospinto, al centro, nella mia città si incontra gente che chiede qualcosa dichiarando d'aver fame: zingari, alcolizzati, immigrati d'oggi colore, invalidi, anziani. Come un marchio in più sulle coscienze sporche del con­sumismo, la città sfodera relitti umani tra pellicce, gioielli, arroganza e vanità e non puoi rispondere ad ogni invocazio­ne! Ma quel ragazzino fermo, risoluto, orgoglioso e dall'aria troppo adulta mi colpi: «Hai fame», domandai, «fame davve­ro?». «Sì», disse serio, «fame». E tacque, A pochi metri da noi uno dei bar più lussuosi della città, sfavillante di luci e panna montata, odorante di cioccolata pre­giata. Presi il ragazzo sotto braccio ed entrammo: «Ordina ciò che vuoi, un gelato, una pasta alla crema..». «Vorrei un panino con la carne». Glielo ordinai. Mangiava muto ed avido guardandomi ancora negli occhi. Avido ma composto, dignitosissimo. Poi bevve dell'acqua fresca. Gli chiesi se volesse qualco­s’altro. Si fece riluttante: «No, grazie, va bene cosi». Ma io compresi dai suoi occhi che indagavano sul bancone di rostic­ceria, che avrebbe desiderato continuare. Mangiò una pizzetta con vero gusto. Quando ci ritrovammo sul marciapiedi mi diede la mano: «Mi chiamo Mario, la voglio ringraziare». «Quanti anni hai?». «Dodici». «Vai a scuola?». «No, lavoro in officina, ma le sessantamila lire della settimana le do a mia madre che è vedova. Io sono capofamiglia. Ora la devo salutare e ancora grazie. Avevo veramente fame!». Sorrise finalmente, appena un attimo e poi sparì tra la folla. Mi vergognai moltissimo d'aver pensato per un attimo che quella fame fosse solo una scusa; di aver pensato, come tutti i superficiali egoisti che con le mie mille lire quel ragazzo avrebbe fatto illeciti acquisti di sigarette o droga. Mi vergognai persino del grande piacere che avevo prova­to vedendolo addentare il suo panino, come se avessi voluto prendermi una grande rivincita, come se avessi voluto dirgli "Hai detto che hai fame! Adesso mangia che tu ne abbia voglia o no!", con l'arroganza che è tipica di tutti coloro per cui man­giare tutti i giorni è cosa naturale, come respirare. Rimasi ferma sul marciapiedi mentre la gente mi spingeva. Nei giorni seguenti lo cercai, Mario, ma non mi è mai più capitato di vederlo. Se lo incontrassi vorrei chiedergli scusa.

giovedì 25 dicembre 2008

Scrivere per essere solo questo conta per me, nella mia vita. Essere per scrivere : la parola, chiarezza del nostro esistere umani